domenica 2 settembre 2012

la crisi economica attuale spiegata nel 2010

Voglio inserire qui un articolo scritto nel 2010 sulla crisi economica che fa delle anticipazioni anche sulla crisi attuale (fine 2012). Assolutamente interessante e da non perdere
Il ritorno del rimosso: Marx, la caduta del saggio di profitto e la crisiVladimiro Giacché
(Relazione al convegno “Marx e la crisi”, Università di Bergamo, 23 aprile 2010)

1.Vent’anni dopo
Appena venti anni fa, con il crollo dei regimi dell’est europeo, anche su Marx e le sue teorie sembrava calato definitivamente il sipario. L’ennesima ‘crisi del marxismo’ era in scena già dai primi anni Ottanta, ma ora, con la fine ingloriosa dell’Unione Sovietica, sembrava che non sarebbe andata come tutte le altre volte. La pagina del marxismo sembrava definitivamente voltata, e gli scritti di Marx destinati
agli storici e ad un pugno di nostalgici fuori dal tempo. I volumi dell’edizione delle
opere di Marx ed Engels che nella ex Berlino Est dei primi anni Novanta affollavano
le bancarelle dei libri usati tra il disinteresse dei passanti sembravano la riprova più
chiara di questo destino.
Purtroppo, però, per risolvere ed eliminare le contraddizioni del reale non basta
sostenere che esse non esistono. E questo vale per gli individui come per le società.
La società capitalistica dei nostri tempi non fa eccezione. E così, nel 2007, è arrivata
la crisi: la peggiore dal 1929 in avanti. Il capitalismo tronfio e trionfante degli ultimi
decenni, con il suo sano egoismo generatore e dispensatore di ricchezza per tutti, con
le sue capacità autoregolative superiori ad ogni goffa imposizione di regole
dall’esterno, ha così ceduto il passo ad un insieme di meccanismi inceppati, che hanno
bisogno di fiumi di denaro degli Stati per tornare malamente a funzionare. Risultato:
l’immagine che oggi il capitalismo dà di sé è quella di un sistema in cui ingiustizie
intollerabili vanno di pari passo con una drammatica inefficienza nell’allocazione
delle risorse.
Si capisce, quindi, il disorientamento nelle folte schiere dei suoi seguaci, sia nel
mondo dell’economia che in quello della politica e dell’informazione. Ma quanto sta
accadendo non è un fatto che riguardi soltanto le cerchie ristrette degli addetti ai
lavori. Molte delle certezze su cui erano state edificate la visione del mondo e la
filosofia della storia diffuse a livello di massa negli ultimi decenni sembrano oggi – se
non proprio in frantumi – quantomeno incrinate. Per capire i motivi del rinnovato
interesse nei confronti di Marx bisogna partire da qui: da queste certezze che non sono
più tali.
La brutalità della crisi mette impietosamente in questione i presupposti di cui si
è nutrita in questi anni l’ideologia dominante, divenuta così pervasiva e trasversale
agli stessi schieramenti politici da poter essere definita il “pensiero unico”.1 Si pensi
alla presunta maggiore efficienza dell’impresa privata rispetto a quella pubblica. Non
esiste alcuna ricerca empirica che dimostri tale superiorità, ma essa è diventata senso
comune.2 Quando però negli Usa, nel Regno Unito, in Germania e altrove vengono
nazionalizzate le banche, e sia pure per socializzare le perdite, è il presupposto stesso
della superiorità della proprietà privata dei mezzi di produzione ad essere posto de
facto in discussione. Più in generale, è il mito del mercato capitalistico quale miglior
sistema di allocazione delle risorse ad essere confutato di fatto dalla crisi attuale:
come si può parlare di efficienza del mercato in una situazione in cui viene distrutta
ricchezza per decine di migliaia di miliardi di euro, e nel giro di pochi mesi nel
mondo i disoccupati diventano 230 milioni? Che efficienza è mai questa? Come è
possibile negare questo gigantesco sperpero di risorse umane e materiali? E,
soprattutto, cosa si deve fare per evitarlo?
In fondo, sono questi dubbi e queste domande ad avere riportato Karl Marx agli
onori delle cronache. Con modalità semplicemente impensabili sino a pochi mesi fa.
La barba del rivoluzionario di Treviri torna ad affacciarsi da giornali e periodici: dalle
pagine del «Financial Times» alla copertina di «Foreign Policy», dal francese «Le
Point» - che gli ha dedicato un numero monografico - alla copertina del «venerdì di
Repubblica».3 Vediamo il presidente francese Nicolas Sarkozy che si fa fotografare
mentre sfoglia Il capitale e leggiamo il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrück
il quale, bontà sua, concede che “ci sono parti della teoria di Marx che non sono poi
così sbagliate”.4 Ovviamente, è fin troppo facile obiettare che queste riscoperte sono
viziate da equivoci (uno su tutti: vedere in Marx un fautore pre-keynesiano
dell’intervento dello Stato nell’economia). Su un punto, però, la rinnovata attenzione
nei confronti di Marx, per quanto superficiale possa essere, coglie nel giusto: sulla
crisi attuale Marx dice di più e meglio di legioni di economisti mainstream dei giorni
nostri. Non a caso, anche alcuni analisti finanziari stanno cominciando a trovare in
Marx utili chiavi di lettura della crisi attuale.5

2. Marx teorico della crisi attuale
In effetti, leggendo le pagine dedicate da Karl Marx alle crisi economiche del
suo tempo, la prima impressione è quella di una sorprendente familiarità. Leggiamo
osservazioni che si riferiscono a crisi di 150 anni fa, e sembra che si parli di oggi.
Quanto ai banchieri e agli uomini d’affari, troviamo testimonianze dell’assoluta
incapacità – allora come oggi – di prevedere la crisi ancora alla vigilia del suo
scoppio: Marx ad esempio ricorda come essi nel 1857 “si congratulassero
reciprocamente per l’andamento fiorente e sano degli affari un mese prima dello
scoppio della crisi”.6
Venendo agli economisti, troviamo – allora come oggi – la fede
nell’impossibilità della crisi, che a crisi scoppiata si rovescia in moralismo e in critica
all’imprudenza degli uomini d’affari: “quando mai questi ottimisti borghesi hanno
previsto o preconizzato una crisi? Non c’è stato periodo di prosperità in cui essi non
abbiano approfittato dell’occasione per dimostrare che questa volta la medaglia non
aveva rovescio, che questa volta il fato era vinto. E il giorno in cui la crisi scoppiava,3
si atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale ed industriale
con banalità moralistiche, accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza”.
Sono parole tratte dall’articolo Pauperismo e libero scambio, pubblicato sul «New-
York Daily Tribune» del 1° novembre 1852 (p.65).7
Tre anni dopo, questa volta in un articolo per la «Neue Oder-Zeitung», Marx
avrebbe ribadito analoghi concetti, in un’invettiva che sembra rivolta a certi odierni
apologeti della globalizzazione, prontamente trasformatisi in fustigatori degli eccessi
che a loro dire avrebbero condotto alla crisi attuale: “la crisi commerciale e industriale
(…) dal settembre scorso aumenta ogni giorno in veemenza e universalità. La sua
ferrea mano ha subito tappato la bocca agli apostoli superficiali del libero scambio
che andavano predicando da anni che dopo la revoca delle leggi sul grano, la
saturazione dei mercati e le crisi sociali erano per sempre bandite nel regno delle
ombre del passato. I mercati sono saturi, e adesso a gridare più forte sulla mancanza
di prudenza che ha impedito ai fabbricanti di limitare la produzione sono quei
medesimi economisti che ancora 5 mesi fa insegnavano con dogmatica infallibilità
che non è mai possibile produrre troppo”.8
Quello che vale per gli economisti, vale a maggior ragione per i giornalisti di
cose economiche. Anche in questo caso, l’esultanza per il buon andamento degli affari
cede facilmente il passo, quando le cose non vanno più bene, all’indignazione morale.
A fare le spese del sarcasmo di Marx a tale proposito è il «London Times», con le sue
invettive contro le “bande di speculatori e falsificatori di cambiali senza scrupoli” che
infestavano la City di Londra e, più in generale, contro un “ceto degli affari marcio
sino al midollo”. Marx commenta: “Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che
per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca delle crisi commerciali
si era definitivamente chiusa con l’introduzione del Libero Commercio, abbiano ora il
diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani
dell’arricchimento moderno” (p. 70). Ma il punto che sta a cuore a Marx è un altro:
“Se la speculazione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale
come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenticare che la
speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo e quindi rappresenta
essa stessa un risultato e un fenomeno, e non la ragione ultima e la sostanza del
processo” (ibidem).
Marx individua qui, nella ricerca moralistica del colpevole della crisi (lo
speculatore), l’altra faccia della medaglia della fede ingenua nell’evitabilità delle
crisi. Tale fede riposa sulla convinzione che la crisi sia qualcosa di estraneo al
normale funzionamento dell’economia capitalistica. Secondo questa illusione
ideologica, la crisi viene sempre da fuori, è una patologia esterna al sistema. Quindi è
dovuta ad errori o colpe specifiche di qualcuno. Ma a questo riguardo Marx ha gioco
facile nell’osservare che “proprio il ripetuto insorgere di crisi a intervalli regolari
nonostante tutti i moniti del passato smentisce l’idea che le loro ragioni ultime
debbano essere ricercate nella mancanza di scrupoli di singoli individui” (ibidem).9
Venendo ai giorni nostri, è facile osservare come proprio la ricerca del
colpevole abbia rappresentato uno degli sport preferiti di politici,
economisti/opinionisti e giornalisti. Nel nostro caso, vista la gravità e complessità
della crisi stessa, l’elenco degli accusati è molto lungo. Senza pretesa di completezza,
si possono citare: i mutui subprime, le obbligazioni strutturate, i derivati sui crediti
(credit default swaps), l’avidità dei banchieri, le società di rating colluse con i
banchieri, l’orientamento al profitto di breve termine (short-termism), la creazione di
veicoli finanziari fuori bilancio (lo shadow banking system), l’inefficacia del riskmanagement,
i buchi nella regolamentazione, la politica monetaria della Federal
Reserve, l’eccesso di consumo degli Stati Uniti, l’eccesso di risparmio della Cina; con
il passare del tempo (e l’aggravarsi della crisi) si sono inoltre tirati in ballo la perdita
di fiducia (che creerebbe o aggraverebbe la crisi), la crisi finanziaria (che avrebbe
contagiato l’economia reale), il fallimento di Lehman Brothers (che avrebbe creato
una crisi mondiale).
Quelli citati sono soltanto alcuni degli esempi di cause della crisi a cui ci si è
rivolti per spiegarla a posteriori. Una cosa è certa: nessuna, ma proprio nessuna di
queste presunte cause sembra in grado di originare una perdita di ricchezza che
secondo le stime della Banca Asiatica di Sviluppo a inizio 2009 ammontava ad oltre
50.000 miliardi di dollari (l’intero prodotto interno lordo mondiale di un anno).10 E
tanto meno il crollo della produzione a livello mondiale e la brusca caduta del
commercio internazionale che si sono verificati.
Ma niente paura. Anche per questo c’è un rimedio: può sempre soccorrerci la
teoria secondo cui si tratta di una crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale.
Circa le spiegazioni della crisi, ci sono pochi dubbi che proprio questa sia l’ultima
frontiera. Sostenuta anche molto autorevolmente: Carlo Azeglio Ciampi, ad esempio,
ha parlato di una “crisi durissima figlia delle distorsioni della finanza ma che ha
contagiato i gangli nevralgici dell’economia reale”.11
Si tratta della versione contemporanea della concezione, ben nota a Marx,
secondo cui la crisi sarebbe dovuta “all'eccesso di speculazioni e all'abuso del credito”
(p. 66). Precisamente questa spiegazione delle crisi era stata sostenuta dalla commissione
incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di redigere un rapporto sulla
crisi del 1857-8. A questo genere di argomentazioni Marx ribatteva che “la
speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno
corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per
questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia
dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della
produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo
un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore
superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare
come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come
semplice contraccolpo del crollo della speculazione” (p. 61). In termini analoghi Marx
si sarebbe espresso dieci anni dopo nel primo libro del Capitale: “la superficialità
dell’economia politica risulta fra l’altro nel fatto che essa fa dell’espansione e della
contrazione del credito, che sono meri sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale,
la causa di quei periodi” (p. 99).
Per Marx i motivi per cui le crisi si presentano come crisi creditizie e monetarie
sono senz’altro radicati in alcune caratteristiche di fondo del modo di funzionamento
dell’economia capitalistica. Ma le crisi non sono in primo luogo creditizie e
monetarie: alla loro base si trova la sovrapproduzione di capitale e di merci.

3. Alle radici delle crisi: limiti e contraddizioni del capitale
Per Marx la radice ultima delle crisi consiste nella contraddizione tra lo
sviluppo delle forze produttive sociali ed i rapporti di produzione capitalistici. Il modo
di produzione capitalistico da un lato tende verso il massimo sviluppo delle forze
produttive (questo è secondo Marx anche il suo principale merito storico). D’altro
lato, i rapporti di produzione e di proprietà che lo contraddistinguono (ossia il lavoro
salariato, l’appropriazione privata della ricchezza prodotta, e l’orientamento della
produzione al profitto anziché al soddisfacimento dei bisogni sociali) inceppano
periodicamente lo sviluppo delle stesse forze produttive, creando sovrapproduzione di
capitale (un accumulo di capitale che non riesce a trovare adeguata valorizzazione) e
sovrapproduzione di merci (un accumulo di merci che non riescono ad essere vendute
ad un prezzo tale da remunerare adeguatamente il capitale impiegato per produrle).
La crisi è il momento in cui tale contraddizione tra forze produttive e rapporti di
produzione si manifesta e, al tempo stesso, il mezzo brutale attraverso cui si
ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale: “le crisi sono sempre
soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni
violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato” (p. 154). Profitto e
accumulazione vengono ripristinati per mezzo della distruzione di capitale e di forze
produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti
e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e
materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera.
Ma vediamo più da vicino i due lati della contraddizione tra sviluppo delle forze
produttive e rapporti di produzione.
Per un verso abbiamo la tendenza del capitale a superare ogni barriera: “il
capitale… è l’impulso illimitato e smisurato ad oltrepassare il suo limite” (p. 80).
Esso quindi tende a riprodursi su scala sempre più ampia e a esportare i propri
rapporti di produzione e di scambio sul mondo intero. Da questo punto di vista, dice
Marx, “la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto
del capitale stesso”; “il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi
nazionali, sia l'idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale,
modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la tradizionale
riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto ciò esso è distruttivo
e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che
ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l'espansione dei bisogni, la molteplicità
della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello
spirito” (pp. 80, 83).
Di contro, l'“universalità” alla quale il capitale tende irresistibilmente “trova
nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo metteranno in
luce che esso stesso è l'ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò
spingono al suo superamento” (p. 83). Queste parole dei Lineamenti sono riecheggiate
nel manoscritto del terzo libro del Capitale, dove Marx adopera una formulazione più
tagliente: “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è il fatto che
il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di
arrivo, come fine della produzione” (p. 155).
La crisi è, appunto, il momento in cui si manifestano le contraddizioni del
capitalismo e i limiti allo sviluppo del capitale che sono connaturati al capitale stesso.
Da un punto di vista formale, la possibilità delle crisi è già insita nella duplice
natura che la merce assume nella società capitalistica. Da un lato la merce ha la
proprietà di essere utile, di soddisfare bisogni umani: è valore d’uso. Dall’altro essa è
depositaria del valore di scambio, ossia ha la proprietà di potere essere scambiata con
altre merci, e in particolare col denaro. Per il venditore la merce ha un valore di
scambio, mentre il compratore la acquista per il suo valore d’uso. Solo dopo aver
venduto, il venditore - con il denaro che gli è stato pagato per la vendita della merce -
potrà a sua volta comprare un’altra merce che rappresenti per lui un valore d’uso. Il
processo di scambio che ha luogo nel modo di produzione capitalistico differisce
quindi dallo scambio diretto e immediato dei prodotti che si ha, ad es., nel baratto.
Esso è infatti mediato dal denaro (passaggio merce-denaro-merce). Marx definisce tale
processo come la metamorfosi della merce. “Il processo di scambio si compie in due
metamorfosi opposte e integrantisi reciprocamente: trasformazione della merce in
denaro e retrotrasformazione del denaro in merce (…) : vendita, scambio della merce
con denaro; compera, scambio del denaro con merce”.12 La metamorfosi di ogni
singola merce rappresenta l’anello di una catena di metamorfosi connesse tra loro.
Quando tutto va bene, questa metamorfosi ha luogo senza intoppi. Ma è sempre aperta
la possibilità che essa si interrompa, ed in particolare che la merce non riesca a
trasformarsi in denaro, in quanto il venditore non trova compratori che abbiano la
possibilità o l’intenzione di acquistare la merce che vende. In questo senso Marx
afferma che “la forma semplice della metamorfosi include la possibilità della crisi” (p.
90). Quando la metamorfosi della merce si interrompe risulta impossibile per il
capitalista realizzare il valore delle merci creato nel processo di produzione: in tal caso
si interrompe il “processo complessivo di riproduzione del capitale”, che è “l’unità
della sua fase di produzione e della sua fase di circolazione” (p. 95). Se questa
interruzione si verifica su larga scala, abbiamo la crisi.
A questo punto erompe anche la contraddizione insita nel denaro nella sua
funzione di mezzo di pagamento. Il denaro, in una situazione normale, ossia non di
crisi, funziona “solo idealmente, come denaro di conto, ossia misura dei valori”. Ma
quando si verificano turbamenti generali di questo meccanismo, quale che sia l'origine
di essi, il denaro improvvisamente si trasforma: “da figura solo ideale della moneta di
conto, eccolo denaro-contante. Non è più sostituibile con merci profane”. Esso si
autonomizza, viene tesaurizzato in quanto tale anziché venire scambiato con merci,
diviene “merce assoluta”. Si produce in tal modo “quel momento delle crisi di
produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria” (pp. 102, 101).
Ma cosa fa sì che la semplice possibilità della crisi si trasformi in realtà? Cosa
innesca le crisi effettive? Un fattore essenziale secondo Marx è rappresentato dalla
capacità di consumo dei lavoratori. Questa capacità è a suo avviso strutturalmente
limitata. Per un motivo ben preciso: il valore di ogni merce è determinato dal lavoro
impiegato in media per produrla, e i profitti del capitalista derivano dal plusvalore,
ossia dal fatto che al lavoratore è pagato non l’equivalente dell’intero valore prodotto,
ma soltanto una parte di esso (cioè non l’intera giornata lavorativa effettivamente
lavorata, ma soltanto una sua parte).
È questa estorsione di valore supplementare che, secondo Marx, determina i
profitti del capitalista ma al tempo stesso anche i limiti della capacità di consumo dei
lavoratori.
Sono insomma i rapporti di produzione (e quindi quelli di distribuzione e di
consumo) che caratterizzano la società capitalistica a rappresentare il principale
ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Infatti - dice Marx - “la causa ultima di
tutte le crisi effettive è pur sempre da un lato la povertà delle masse, dall’altro
l’impulso del modo di produzione capitalistico a sviluppare le forze produttive come
se la capacità di consumo assoluta della società ne rappresentasse il limite” (p. 87).
Quando si dice che “le crisi provengono dalla mancanza di un consumo in grado di
pagare o di consumatori in grado di pagare”, si enuncia un’assoluta ovvietà. Ma
attenzione: quando si pensa di porre rimedio al problema asserendo che “la classe
lavoratrice riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si
porrebbe quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di
conseguenza crescesse il suo salario”, si pecca di ingenuità. Perché questo – oltre un
certo limite – è strutturalmente impossibile fintantoché perdura il modo di produzione
capitalistico: il problema, infatti, è il mantenimento delle condizioni di profittabilità
del capitale, e queste “solo momentaneamente consentono una relativa prosperità della
classe operaia” (pp. 87-88).13 Nel contesto dei rapporti capitalistici di produzione, ogni
politica redistributiva incontra prima o poi dei limiti insormontabili: essa può infatti
essere posta in atto solo fintantoché non intacchi la profittabilità del capitale.

4. La caduta tendenziale del saggio di profitto
Ma c’è di più: secondo Marx la società capitalistica è comunque caratterizzata
da una tendenza di lungo periodo alla diminuzione di questa profittabilità, ossia alla
caduta del saggio di profitto.
Per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il
lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già
incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun lavoratore li facesse funzionare, non
soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che
posseggono). È il lavoro umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi
profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè ossia lavoro supplementare
rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (lavoro necessario): questo
pluslavoro produce infatti un valore supplementare, un plusvalore, rispetto al valore
della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione
Proprio a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore,
Marx definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza lavoro capitale
variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale
costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico
aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito
in forza-lavoro: si verifica, in altri termini, “una diminuzione relativa del capitale
variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo
messo in movimento” (p. 110). Marx definisce questo processo anche come una
progressiva crescita della “composizione organica del capitale”. Si tratta di “un’altra
espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si
manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari,
capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello
stesso tempo, ossia con meno lavoro” (ibidem). La diminuzione relativa del capitale
variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di
profitto - ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella
produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) - diminuisca. Questa la
legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Di recente essa è stata espressa
anche così: “il mutamento tecnologico indotto dalla necessità da parte del capitale di
accrescere la produttività del lavoro, conducendo ad una diminuzione del rapporto
lavoro capitale, tende a far cadere il saggio di profitto”.14
Se esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è
riscontrabile oppure no? La risposta è senz’altro affermativa. E questo vale per un
ampio arco di tempo.
Nel periodo che va dal 1973 al 2003, il saggio di crescita del Pil pro capite è
stato di poco superiore alla metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950-
1973. Se dal calcolo si escludesse la Cina, esso sarebbe inferiore di quasi due terzi.15
E all’interno di questa stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare degli
anni. La crescita mondiale negli anni Novanta è stata mediamente inferiore a quella
dei decenni precedenti.16 Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto ad
un ritmo inferiore al 4%; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto ad un ritmo
superiore al 4%, ed è quasi sempre risultato molto inferiore.17
E per quanto riguarda specificamente il saggio di profitto? La più approfondita
ricerca recente in materia dimostra una tendenza generale al calo del saggio di profitto
negli ultimi decenni e il suo convergere su livelli simili nei principali Paesi
dell’Occidente industrializzato, sia pure con andamenti tra loro non uniformi.
Particolarmente eloquenti i dati riguardanti Germania, Francia e Italia, che
evidenziano un dimezzamento del saggio di profitto tra i primi anni Sessanta e i primi
anni di questo decennio.18 Il Giappone, che muoveva da livelli relativamente più
elevati del saggio di profitto, evidenzia una diminuzione ancora maggiore dal 1970 ai
primi anni del decennio in corso. Stati Uniti e Gran Bretagna, che muovevano invece
da livelli più bassi, sembrano evidenziare una relativa ripresa a partire dagli anni
Ottanta.19 Come vedremo più avanti, le cause che hanno reso possibile questa ripresa
hanno molto a che fare anche con la crisi mondiale attualmente in corso.
Comunque sia, a dispetto di pregiudizi molto diffusi, negli ultimi decenni
neppure gli Stati Uniti hanno conosciuto un boom dei profitti. Tutt’altro. Se si
considerano i profitti medi delle imprese americane prima delle tasse dopo il 1940, si
osserva una costante diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio di profitto era del 28%,
dal 1957 al 1980 è stato del 20%, per scendere ancora al 14% nel periodo 1981-
2004.20 Nell’ultimo di questi periodi il livello di utilizzo degli impianti industriali
negli Stati Uniti è sempre stato inferiore all’82%, ed è sceso al 78% nel 2005 – cioè
due anni prima dello scoppio della crisi.21

5. Fattori di controtendenza
I dati riportati sopra sono eloquenti, e a mio avviso tali da far giustizia di tanti
sbrigativi rifiuti della teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Del resto, nella letteratura recente non mancano recuperi della teoria. Stefano Perri, ad
esempio, vede nella caduta del saggio di profitto “uno dei fattori determinanti che
hanno agito dietro l’emergere di quelle contraddizioni che alla fine sono esplose con
la crisi attuale”. Andrew Kliman, che da anni argomenta (e sostiene con cifre)
l’esistenza di tale caduta, ha scritto in un suo testo in argomento: “è senz’altro vero
che causa prossima della crisi non è stata la caduta del saggio di profitto. Tuttavia, se
cerchiamo di andare oltre le cronache giornalistiche che si limitano a porre in
relazione tra loro giorno gli eventi del giorno, dobbiamo cercare i processi di lungo
termine che che hanno preparato il terreno per la crisi e in tal modo ne sono state le
cause indirette. Questo saggio argomenta che la caduta del saggio di profitto ne è stata
una fondamentale causa indiretta (key indirect cause)”.22 Ma probabilmente la
formulazione più chiara del rapporto tra caduta del saggio di profitto e crisi è quella
che si trova in un passo del manoscritto del III libro del Capitale dello stesso Marx:
“nella misura in cui il saggio di profitto, il saggio di valorizzazione del capitale
complessivo è il pungolo della produzione capitalistica, così come la valorizzazione
del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali
indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione
capitalistico. (Questa stessa caduta favorisce sovrapproduzione, speculazione, crisi,
capitale in eccesso accanto alla forza-lavoro in eccesso o sovrappopolazione relativa)”
(p. 138).
Per intendere correttamente il significato della caduta del saggio di profitto in
Marx, va comunque precisato che essa è in verità una tendenza alla diminuzione e non
un crollo – tantomeno un crollo improvviso.
Questo perché la diminuzione del saggio di profitto può essere in parte
controbilanciata da altri fattori, a cominciare dalla concentrazione dei capitali. A
causa di tale concentrazione, pur calando la proporzione del capitale variabile rispetto
a quello costante, un numero maggiore di lavoratori lavora per un singolo capitalista:
aumenta quindi la massa del plusvalore e questo fa sì che “la massa dei profitti
aumenti contemporaneamente e nonostante la caduta del saggio di profitto” (p. 119).
Inoltre le rendite di monopolio che si possono conseguire attraverso la concentrazione
dei capitali permettono il mantenimento di margini di profitto significativi. È appena
il caso di ricordare, a questo riguardo, che il processo di concentrazione dei capitali ha
fatto progressi da gigante negli ultimi decenni. Basti pensare che già nel 2000 il
valore delle fusioni tra imprese a livello mondiale aveva raggiunto i 5.000 miliardi di
dollari, un valore pari a 10 volte quello delle fusioni transnazionali nel 1990. Si sono
così formati dei veri e propri colossi (a New York hanno creato anche un indice di
borsa apposta per loro: i Global Titans). Per avere un’idea delle dimensioni di queste
imprese basti pensare alla multinazionale petrolifera Exxon Mobil: nel 2008 questa
società ha realizzato oltre 45 miliardi di dollari di profitti, pari grosso modo al Pil di
150 Stati messi assieme.23 In certi settori la concentrazione è così avanzata da creare
situazioni di semi-monopolio da parte di una singola impresa: si è ad esempio
calcolato che oltre l’80% dei computer del mondo giri sui sistemi operativi della
Microsoft.
Ma la concentrazione dei capitali non è sufficiente ad invalidare gli effetti della
legge. In effetti - osserva Marx - “se si considera l’enorme sviluppo delle forze
produttive del lavoro sociale anche soltanto degli ultimi 30 anni rispetto a tutti i
periodi precedenti, se si considera soprattutto l’enorme massa di capitale fisso che
entra nel processo di produzione sociale complessivo in aggiunta al macchinario
propriamente detto, al posto della difficoltà in cui si sono sinora dibattuti gli
economisti, ossia quale spiegazione dare della caduta del saggio di profitto, subentra
quella opposta: come si spiega il fatto che questa caduta non sia più grande o più
rapida?”. La risposta di Marx è questa: entrano in gioco “fattori di controtendenza,
che frenano e contrastano l’efficacia della legge generale, dandole il carattere di una
semplice tendenza” (pp. 127-128).
Ripercorrere i fattori di controtendenza individuati da Marx ponendoli a
confronto con gli sviluppi economici dei nostri ultimi 30 anni è piuttosto istruttivo.24
1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè accrescimento del
plusvalore, soprattutto attraverso il prolungamento del tempo di lavoro (plusvalore
assoluto) e l’intensificazione del lavoro e l’aumento della produttività del lavoro
(plusvalore relativo). Per Marx questo fattore consente di fare da contrappeso alla
caduta del saggio di profitto aumentando la quota di lavoro non pagato, ossia il saggio
del plusvalore (pp. 128 sgg.). È quanto è avvenuto negli scorsi anni nei paesi a
capitalismo avanzato. Un caso da manuale di aumento del plusvalore assoluto è
rappresentato dall’accordo integrativo della contrattazione aziendale raggiunto in
Germania nel 2004 fra la Siemens ed il sindacato dei metalmeccanici IG-Metall, che
prevedeva il prolungamento dell’orario di lavoro settimanale da 35 a 40 ore a parità di
retribuzione (in cambio della conservazione di 2000 posti in due impianti produttivi,
che Siemens minacciava di delocalizzare in Ungheria); analoghi accordi furono poi
conclusi per la Volkswagen e la Daimler-Chrysler. Quanto all’intensificazione del
lavoro (ossia all’aumento del plusvalore relativo), essa si verifica ogni qual volta
un’innovazione di processo aumenta la produttività del lavoro, ossia incrementa la
quantità di merci prodotte dalla medesima forza-lavoro in uno stesso intervallo di
tempo.
2) Compressione del salario al di sotto del suo valore. Secondo Marx questa è
“una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di
profitto” (p. 132). Cosa significa questa compressione in concreto? Per intenderlo
bisogna partire da questo: per Marx “il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi
di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro”.25
D’altra parte, però, questo valore è storicamente determinato: “il volume dei cosiddetti
bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch’esso un prodotto della
storia, dipende quindi in gran parte dal grado d’incivilimento di un paese e, fra l’altro,
anche ed essenzialmente dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini e dalle
esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori. Dunque
la determinazione del valore della forza-lavoro, al contrario che per le altre merci,
contiene un elemento storico e morale”.26
Sotto questo profilo, è indubbio che oggi in un paese a capitalismo avanzato il
valore della forza-lavoro (ossia l’insieme dei mezzi di sussistenza ritenuti socialmente
accettabili) è superiore a quello dell’Ottocento. Ma è altrettanto indubbio che la
riduzione dei salari avvenuta negli ultimi anni, in parallelo ai processi di
precarizzazione della forza-lavoro, collochi i salari attuali in molti casi nettamente al
di sotto del loro valore storico medio dei 2-3 decenni precedenti. Ciò è ancora più
evidente se si tiene conto non soltanto del salario diretto (il netto in busta paga), ma
anche della riduzione che hanno conosciuto le varie componenti del salario indiretto
(le prestazioni sociali) e differito (le pensioni), attraverso l’aumento dei servizi
pubblici, la generalizzata diminuzione della protezione sociale, la privatizzazione dei
sistemi pensionistici, ecc.
Per avere un esempio concreto di cosa significhi la compressione del salario al
di sotto del suo valore, si pensi ad un precario impiegato in un call center, che non
può permettersi un affitto e deve vivere presso i genitori. In questo caso il prezzo che
il capitalista paga per l’utilizzo della forza-lavoro è inferiore al prezzo delle sue
condizioni di riproduzione.
Un buon punto di osservazione per misurare la compressione dei salari medi
negli ultimi decenni è rappresentato dalla crescita della disuguaglianza sociale.
Facciamo parlare le cifre, a cominciare da quelle che riguardano gli Stati Uniti. Tra il
1973 e il 2002 i redditi del 90% più povero della popolazione statunitense sono scesi
del 9% in termini reali. Quelli dell’1% più ricco sono cresciuti del 101%, e quelli
dello 0,1% più ricco addirittura del 227%. Risultato: nel 2005 il reddito dopo le tasse
del quinto più povero della popolazione era di 15.300 dollari annui, quello del quinto
mediano di 50.200 dollari, mentre quello dell’1% più ricco era superiore al milione di
dollari. Negli anni tra il 1993 e il 2006 all’1% più ricco della popolazione americana è
andata quasi la metà della crescita del reddito complessiva (proporzione che cresce a
tre quarti se si considerano soltanto gli anni tra il 2002 e il 2006). Nel 2005, secondo
dati dell’US Census Bureau, l’indice della disuguaglianza tra i redditi ha raggiunto il
massimo storico. Nel 2006 la quota di reddito che andava al 10% più ricco delle
famiglie americane era il 49,6% del totale, la quota più elevata dal 1917 in poi. Nel
2007 l’1% più ricco della popolazione statunitense si appropriava di circa il 16% del
reddito nazionale (nel 1980 tale percentuale era “appena” dell’8%).27 La stessa
divaricazione tra i redditi si registra in Gran Bretagna, dove la tendenza si è
accentuata dopo l’andata al potere dei laburisti di Blair nel 1997: anche qui, secondo
dati governativi pubblicati nel maggio 2009, la forbice della disuguaglianza è la più
alta di sempre.28
Ma la riduzione della quota del prodotto interno lordo che va ai salari, e per
contro la crescita della quota destinata ai profitti, è una tendenza che investe tutti i
paesi a capitalismo maturo, come ha evidenziato una ricerca della Banca dei
Regolamenti Internazionali del 2007: in Italia, ad esempio, dal 1983 al 2005 i
lavoratori hanno perso 8 punti percentuali di reddito, andati in maggiori profitti (che
infatti sono saliti nel periodo dal 23% al 31% del totale).29 E la stessa Commissione
Europea nello studio Employment in Europe 2007 ha dovuto ammettere: “nella
maggior parte dei Paesi UE la quota distributiva del lavoro ha raggiunto un picco
nella seconda metà degli anni ’70 e nei primi anni ’80, successivamente riducendosi a
livelli inferiori a quelli antecedenti il primo shock petrolifero”. Infine, secondo una
ricerca dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i salari medi mondiali nel
1995-2007 sono rimasti al di sotto della crescita del PIL. Nella maggior parte dei
Paesi la quota del reddito andata ai salari è scesa ulteriormente nel 2001-2007 rispetto
al periodo 1995-2000. Nell’intero periodo considerato essa è diminuita rispetto ai
profitti.30
3) Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante. Al riguardo Marx
osserva: “la stessa evoluzione che accresce la massa del capitale costante in rapporto a
quello variabile, riduce attraverso l’accresciuta forza produttiva del lavoro il valore
degli elementi del capitale costante, e quindi impedisce che il valore del capitale
costante – che pure cresce continuamente – cresca nella stessa proporzione in cui
cresce il volume materiale del capitale costante, cioè l’entità materiale dei mezzi di
produzione che sono messi in movimento dalla stessa forza lavoro” (p. 132). Ne
consegue che in realtà il mutamento della proporzione tra capitale variabile e capitale
costante è nei fatti molto inferiore a quanto si potrebbe desumere dall’aumento
dell’entità materiale degli elementi (macchinari ecc.) che compongono quest’ultimo.
4) La sovrappopolazione relativa. Questo aspetto negli ultimi anni si è
manifestato in particolare sotto forma di pressione di un gigantesco esercito
industriale di riserva presente nei paesi emergenti: soprattutto in Asia, ma anche
nell’Europa dell’est. Questo ha comportato una massiccia delocalizzazione di
produzioni industriali verso i paesi di nuova industrializzazione. In generale,
l’accentuata concorrenza di produzioni realizzate in paesi a minor costo della forzalavoro
(e, in misura molto minore, l’immigrazione di manodopera a basso costo) ha
esercitato una fortissima influenza calmieratrice sui salari dei Paesi industrialmente
più avanzati.31
5) Il commercio estero. Secondo Marx il commercio estero rappresenta un
fattore di controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto per diversi motivi.
In primo luogo, grazie ad esso il volume della produzione si accresce
consentendo un ampliamento di scala della produzione e quindi una riduzione dei
suoi costi unitari: questo “rende più a buon mercato tanto gli elementi del capitale
costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale variabile (mezzi di
sussistenza necessari)” (p. 133). In tal modo il commercio estero agisce in modo
favorevole all’aumento del saggio di profitto, per un verso accrescendo il saggio del
plusvalore (in quanto il valore della forza-lavoro cala, e quindi una maggior parte
della giornata lavorativa può essere rappresentata da lavoro non pagato) e per un
altro diminuendo il valore del capitale costante (la qual cosa rallenta l’aumento della
composizione organica del capitale). È indubbio il ruolo che questo fattore ha giocato
negli ultimi anni, in termini di bassa inflazione e di maggiori margini di
compressione dei salari.
In secondo luogo, la superiorità tecnologica delle merci prodotte in un
determinato paese può consentire un sovrapprofitto nel fare concorrenza a merci
prodotte altrove con tecnologia meno avanzata: “i capitali investiti nel commercio
estero possono fruttare un saggio di profitto superiore” – osserva Marx a questo
proposito – perché qui “si concorre con merci che sono prodotte da altri paesi con
condizioni di produzione meno favorevoli e così il paese più progredito vende le sue
merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato dei paesi concorrenti”
(p. 134). A questo riguardo va osservato che, per quanto riguarda i paesi a
capitalismo avanzato, questo aspetto - che per un lungo periodo ha giocato un ruolo
molto importante, dando origine a molte teorizzazioni sullo “scambio ineguale”
come elemento permanente del dominio dei paesi del “centro” capitalistico rispetto a
quelli della “periferia” - ha perso relativamente peso negli ultimi anni, grazie agli
impressionanti progressi tecnologici compiuti da paesi quali India, Cina e altri stati
del sud-est asiatico.
In terzo luogo, “per quanto d’altro lato riguarda i capitali investiti in colonie”,
Marx osserva che “essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in quei
paesi il saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minore sviluppo e in
secondo luogo (…) vi è un maggiore sfruttamento del lavoro” (p. 135). È facile
vedere come questo aspetto si applichi perfettamente a molti odierni investimenti
diretti esteri effettuati in paesi emergenti.
Tutto questo vale per il breve periodo. Gli effetti di medio-lungo periodo del
commercio estero, invece, non sono così favorevoli al saggio di profitto. Infatti,
come Marx rileva con chiaro riferimento all’Inghilterra dei suoi tempi, “lo stesso
commercio estero sviluppa il modo di produzione capitalistico e quindi la
diminuzione in patria del capitale variabile rispetto a quello costante e produce
d’altro lato sovrapproduzione in rapporto all’estero, perciò ha di nuovo alla lunga
l’effetto opposto” (ibidem).
Qui va però sottolineata una peculiarità della situazione attuale. Negli ultimi
decenni l’ampliamento del commercio è certamente stato considerevole innanzitutto
in termini di estensione spaziale (si pensi cosa ha significato l’apertura di mercati
prima chiusi quali quelli dell’est europeo). Esso deve tuttavia essere considerato
anche nel senso più generale di un ampliamento della sfera del commercio, ossia di
ciò che è commerciabile e viene messo a profitto. Tra le concrete contromisure alla
caduta del saggio di profitto vi è stata infatti la messa a profitto dei beni comuni,
ossia di valori d’uso in precedenza gratuiti che si è cercato e si cerca di trasformare
in valori di scambio (si pensi alle risorse idriche), e l’ampliamento di ciò che è
coperto da brevetto (a questo riguardo si spazia ormai dal genoma, a determinati tipi
di piante, alla proprietà intellettuale). Da questo punto di vista, negli ultimi decenni si
è manifestata con prepotenza la tendenza alla colonizzazione di ogni ambito
dell’esistenza da parte del capitale.
6) Aumento del capitale produttivo di interesse. Questo fattore, al quale
Marx accenna al termine della propria trattazione dei fattori di controtendenza,
consiste nella destinazione di una parte crescente del capitale a capitale produttivo
d’interesse, ossia all’investimento in obbligazioni o azioni (più in generale, in attività
creditizie e finanziarie). L’importanza assunta da questo fattore negli ultimi decenni
è stata notevolissima, e probabilmente assai superiore a quanto Marx stesso avrebbe
ritenuto possibile.
Capire quale sia la dinamica sottesa a questo sviluppo è essenziale anche per
comprendere i motivi scatenanti della crisi in corso.

6. La bubble èpoque
In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: “nel
1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo
equivalente al PIL mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello
mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al PIL,
era del 356%”.32 Se si considerano i soli Stati Uniti, la percentuale del debito totale a
fine 2007 è ancora superiore: 373%.33 Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare
l’idea delle proporzioni assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza.
Si tratta di un processo che ha radici lontane, che affondano nella fine degli anni
Sessanta, quando cessa il grande periodo di crescita economica postbellica. Già in un
testo del 1977 Harry Magdoff e Paul Sweezy scrivevano che con la fine di quel
periodo di prosperità “l’economia degli Stati Uniti si è sempre più andata abituando
ad un uso continuato del debito. I cicli caratteristici del credito continuano ad
alternarsi, ma con una differenza significativa: i livelli del ricorso al credito
continuano a crescere da una recessione all’altra e da un massimo di ciclo economico
all’altro. In misura sempre maggiore il livello generale di attività economica… viene
sostenuto da sempre maggiori iniezioni di credito da parte del governo e da parte di
enti privati”.34 Rileggere questa pagina oggi fa decisamente impressione, soprattutto
se si tiene presente che il fatto che negli ultimi decenni “i livelli del debito
complessivo siano cresciuti attraverso i cicli economici” è considerato tra gli aspetti
più preoccupanti della situazione.35
In parallelo al rallentamento della crescita e all’aumento della leva creditizia,
cresce l’instabilità finanziaria. Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1968 gli
Stati Uniti non avevano conosciuto alcuna crisi finanziaria. Più in generale, nel
periodo 1945-1971 nel mondo non vi erano state crisi bancarie.36 Da allora le crisi
finanziarie, negli Stati Uniti e nel mondo, si fanno ricorrenti: tra il 1975 e il 1997 il
Fondo Monetario ne conterà più di 200.37
Ma cosa succede nel 1971 di così importante? Gli Stati Uniti denunciano gli
accordi di Bretton Woods, ponendo fine alla convertibilità del dollaro in oro e
decretando così la fine del gold-exchange standard. Ma non per andare nella
direzione che all’epoca auspicava il presidente francese De Gaulle, quella di un
ritorno al gold standard, cioè un sistema monetario internazionale ancorato
direttamente all’oro. Per andare nella direzione opposta, quella del dollar standard:
facendo cioè del dollaro una moneta assolutamente fiduciaria. Una moneta il cui
valore è ormai esplicitamente privato di ogni riferimento alle riserve in oro detenute
dalla Federal Reserve, ma che resta, ciò nondimeno, il perno del sistema monetario
internazionale. Il mondo comincia ad essere inondato di dollari: erano 30 miliardi nel
1958, supereranno gli 11.000 miliardi nel 2004.38
Il ruolo del dollaro si consolida a seguito della crisi petrolifera del 1973, in
quanto il petrolio, il cui prezzo si impenna, è scambiato in dollari. Da questo
momento il dollaro diventa “moneta mondiale” – il ruolo che Marx attribuiva all’oro
– e quindi assume anche il ruolo di moneta-rifugio in tutte le tempeste finanziarie che
periodicamente scuotono altri paesi, ed in particolare i paesi del Terzo Mondo. Nel
corso degli anni Ottanta. Si tratta di crisi alle quali non è estranea la stretta monetaria
attuata nel 1979 da Paul Volcker negli Stati Uniti, che provoca un’impennata dei tassi
d’interesse in tutto il mondo, gettando sul lastrico molti Stati (del Terzo Mondo e del
cosiddetto “blocco socialista”) che negli anni precedenti avevano contratto forti
debiti. A seguito di ogni crisi gli Stati Uniti attraggono nuovi capitali e vedono
rafforzato il ruolo di Wall Street come centro finanziario mondiale. Lo stesso avverrà
negli anni Novanta.
Si cominciano a liberalizzare i movimenti internazionali di capitale e, a partire
dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti si comincia a smantellare il sistema normativo che
era stato costruito dopo la crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni
all’attività bancaria (lo stesso avverrà in Europa negli anni Novanta). Ad esempio,
viene ampliato il tipo di asset finanziari che possono essere acquisiti dalle casse di
risparmio americane (le saving & loans associations): il risultato, alla fine di quello
stesso decennio, è il fallimento di 745 casse di risparmio. Soltanto massicci salvataggi
pubblici (per una spesa di 125 miliardi di dollari a carico dello Stato) riescono ad
impedire che la crisi divenga sistemica.39 In compenso esplode il debito pubblico.
All’inizio degli anni Novanta scoppia la bolla finanziaria del Giappone, che
entra in una stagnazione destinata a durare oltre un decennio, e nel 1997 vanno in crisi
anche i Paesi del sud-est asiatico; nel 1998 ad essere colpita è la Russia. Anche in
questi casi, enormi capitali si rifugiano a Wall Street, alimentando la bolla speculativa
della new economy (1999-2000). Già in questi anni non mancano analisti finanziari
che lanciano segnali d’allarme riguardo ad “un ciclo mondiale del credito le cui
origini posso essere rintracciate nei primi anni Ottanta e che è ormai prossimo alla
maturità” (ossia all’esplosione); si menzionano esplicitamente la “eccessiva creazione
di credito” a cui fanno riscontro “decisioni di investimento sbagliate”; si sostiene, in
particolare, che “la spiegazione principale della rapida crescita del Pil e della
produttività negli anni recenti, in particolare negli Stati Uniti, consiste nel parossistico
ciclo del credito”.40 È quanto retrospettivamente ammette oggi Jürgen Stark, uno dei
membri del consiglio di amministrazione della BCE: “negli ultimi dieci anni, la
crescita nella parte più sviluppata del mondo è stata alimentata da sovraconsumo [!],
alto indebitamento e dal costo eccessivamente contenuto del rischio”.41
Ma non avviene alcuna inversione di tendenza. Anche l’esplosione della bolla
della new economy viene riassorbita in modo relativamente rapido, e la stessa
recessione americana iniziata nel marzo del 2001 risulta di breve durata, soprattutto
grazie alle enormi iniezioni di liquidità effettuate nel sistema dopo l’11 settembre e al
ribasso dei tassi di interesse, portati ai minimi da 40 anni (di fatto negativi, cioè
inferiori al tasso d’inflazione).42 Questa politica è resa possibile da due presupposti: in
primo luogo da bassi livelli di inflazione, dovuti sia al contenimento dei prezzi delle
merci importate dai Paesi emergenti, sia (soprattutto) alla compressione dei salari; in
secondo luogo dallo status di valuta internazionale di riserva del dollaro, dal suo
continuare ad essere “moneta mondiale” a dispetto di una bilancia commerciale in
passivo dal 1976. Qualsiasi altro Paese che avesse così a lungo consumato più di
quanto produceva (è questo il significato del passivo della bilancia commerciale),
avrebbe pagato una politica monetaria così espansiva con una crisi del debito simile a
quelle patite negli anni da molti Paesi emergenti.
I bassi tassi di interesse alimentano il credito e più in particolare la bolla del
mercato immobiliare: sia i prezzi delle case che l’ammontare dei mutui contratti dalle
famiglie americane raddoppiano dal 2000 al 2005.43 Nel 2006 i prezzi delle case
cominciano a scendere. Si manifesta un evidente eccesso di offerta, cioè una crisi da
sovrapproduzione, nel settore delle costruzioni. Cominciano le insolvenze di chi
aveva contratto mutui. Dalla prima metà del 2007 i titoli legati ai mutui subprime
cominciano ad essere colpiti dalle vendite. Scoppia la crisi. All’inizio ben pochi
economisti e commentatori intendono che la crisi dei subprime è legata ad un eccesso
di credito molto più generale.44 I più assumono dapprima un atteggiamento
minimizzante, poi si perdono nella ricerca delle “cause” della crisi, adducendo - come
abbiamo visto sopra – le più svariate. Quasi tutti sono colti di sorpresa dall’imponenza
della crisi.45

7. La finanza come sintomo e come droga: le tre funzioni della finanziarizzazione
In base alla ricostruzione che si è proposta, l’ampiezza della crisi attuale non è
affatto sorprendente. Essa rappresenta infatti il precipitato di oltre un trentennio di
crescita asfittica, di stentata valorizzazione del capitale, a cui si è risposto con la
finanziarizzazione su larga scala. La finanza non è la malattia, ma il sintomo della
malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla – e che quindi
l’ha cronicizzata.
Questa esplosione della finanza e del credito ha avuto una triplice funzione: 1)
mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori; 2) allontanare nel
tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria; 3) fornire al capitale
in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d’investimento ad elevata
redditività. Vediamo più da vicino questi tre aspetti.

1) Credito alle famiglie. “La caratteristica più notevole dell’era della
disuguaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni Ottanta è rappresentata
dal fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della
gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato”.46 Così il
«Financial Times» commentava i dati che abbiamo citato più sopra sul calo dei redditi
da lavoro negli ultimi decenni. Ma subito spiegava l’arcano: il motivo dell’assenza di
reazioni va ricercato nel fatto che il tenore di vita delle persone con redditi mediobassi
ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito
da lavoro. La politica monetaria espansiva e di bassi tassi di interesse della Federal
Reserve ha alimentato il credito al consumo e la bolla immobiliare, consentendo a
famiglie a basso reddito contrarre debiti relativamente a buon mercato. La fertile
fantasia dei grandi istituti di credito americani, per parte sua, ha escogitato prodotti
rivolti anche a chi non aveva né reddito né lavoro né poteva offrire garanzie
patrimoniali, come i cosiddetti “mutui Ninja” (no income, no job, no asset). Questi ed
altri mutui ad alto rischio costituiscono gli ormai famosi mutui subprime.
La crescita dei valori immobiliari ha in effetti creato per diversi anni un senso di
ricchezza crescente (qualcosa di simile, ma su scala minore, era successo alla fine
degli anni Novanta con la bolla borsistica della new economy), e ha reso possibile
rinegoziare i mutui e anche accendere ipoteche di secondo grado sulla casa a garanzia
di prestiti finalizzati al consumo. È il fenomeno che è stato definito come home equity
extraction. Il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un
lavoratore che vede diminuire il proprio salario e però consuma come e più di prima.
E va detto che ad essere soddisfatti erano in molti, a cominciare da Paesi esportatori
come la Germania, la Cina, il Giappone, la stessa Italia.
Una costruzione perfetta, salvo due piccoli particolari: da un lato, una crescita
fortissima dell'indebitamento delle famiglie americane, che nel 2007 ha raggiunto il
100% del Pil (dal 61,4% di 10 anni prima);47 dall’altro, il fatto che tutto questo
castello di carte poteva stare in piedi soltanto se il valore degli immobili continuava a
crescere. Ma la cosa ovviamente non poteva andare avanti all’infinito. E infatti –
come sappiamo – il mercato immobiliare statunitense alla fine è crollato.
2) Credito alle imprese. Ma il credito non dava respiro soltanto alle famiglie
americane. Lo dava anche, e in misura non minore, alle imprese di tutto il mondo.
L’intervento svolto da Sergio Marchionne all’incontro della Fiat con il governo e i
sindacati del 18 giugno 2009 è molto utile per intendere questo aspetto: “il primo
grande problema” del settore è “quello della sovraccapacità produttiva (…). La
capacità produttiva, a livello mondiale, è di oltre 90 milioni di vetture l’anno, almeno
30 milioni in più rispetto a quanto il mercato sia in grado di assorbire in condizioni
normali”.48 Ovviamente, questo enorme eccesso di capacità produttiva non si è
prodotto tutto insieme dopo qualche mese di crisi. E infatti la sovrapproduzione nel
settore è aumentata; ma era ragguardevole già nei primi anni di questo decennio,
quando ammontava alla cifra già esorbitante di 20 milioni di automobili all’anno.
Come hanno fatto le case automobilistiche a tirare avanti in questi anni in presenza di
una sovrapproduzione di questa entità? In quattro modi. Innanzitutto spingendo sul
credito al consumo per l’acquisto di autovetture (con finanziamenti a tasso zero per
l’acquisto di automobili e simili): lo stesso Marchionne ha affermato che “le
autovetture finanziate in Europa sono tre su quattro”.49 Poi riscadenzando i propri
debiti, grazie alla possibilità di usufruire di prestiti a condizioni di tasso
eccezionalmente favorevoli, in assenza delle quali non avrebbero potuto sostenere il
peso dell’indebitamento. In terzo luogo emettendo azioni a costi decrescenti, grazie
all’afflusso crescente di denaro sui mercati finanziari proveniente dai fondi pensione e
dai fondi istituzionali: in tal modo “la stessa capital asset inflation tipica del
capitalismo dei fondi è stata per lungo tempo un elemento stabilizzante della
posizione debitoria delle imprese non finanziarie”.50 Infine, facendo profitti non più
con le attività tradizionali, ma da operazioni finanziarie. È questa la strada maestra per
la redditività imboccata negli scorsi anni da moltissime imprese manifatturiere.
3) La speculazione come mezzo per la valorizzazione del capitale. La
possibilità di effettuare attività speculative per ottenere livelli di profitto altrimenti
impossibili: questo è stato la terza grande funzione del credito e della finanza in questi
anni. Intendiamoci, nulla di nuovo sotto il sole, se non forse nelle dimensioni del
fenomeno: già per Marx “tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte
periodicamente da una vertigine nella quale vogliono far denaro senza la mediazione
del processo di produzione”. Si tratta di un fenomeno descritto, poco prima della crisi
del 1929, anche dal marxista Henryk Grossmann, il quale considerava la speculazione
di borsa come una sorta di esportazione di capitali verso l’interno, del tutto parallela
all’“esportazione dei capitali all’estero”, e con al fondo lo stesso motivo: la crisi di
valorizzazione del capitale nei settori originari di attività.51 Negli ultimi anni una gran
parte delle stesse aziende manifatturiere ha ottenuto profitti tramite operazioni
finanziarie. Alcune grandi multinazionali, come la General Electric, hanno messo in
piedi un ramo di azienda separato per questo tipo di attività. Negli anni precedenti la
crisi, da questo ramo di attività, GE Capital, la General Electric ha tratto più del 50%
dei suoi profitti. In effetti, se si esamina l'andamento dei profitti negli Stati Uniti si
osserva che a partire dalla fine degli anni Novanta quelli da attività finanziarie
cominciano a crescere vertiginosamente, perdendo ogni rapporto tanto con
l’andamento del Pil quanto con i profitti provenienti da altre attività: Particolarmente
eclatante il caso degli Stati Uniti, in cui nei primi anni Ottanta il settore finanziario
vantava il 10% dei profitti totali, proporzione salita al 40% nel 2007.52

8. Credito e crisi in Marx – e oggi
Se ora ritorniamo alla concezione marxiana del credito, possiamo osservare che
in essa è presente una determinazione di grande importanza in relazione a quanto
abbiamo visto: per Marx il credito è uno dei principali strumenti attraverso cui il
capitale tenta di superare i propri limiti.
Infatti, grazie al credito i “limiti del consumo vengono allargati dalla
intensificazione del processo di riproduzione, che da un lato accresce il consumo di
reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d'altro lato si identifica con
l'intensificazione del consumo produttivo” (p. 98). Inoltre il credito “spinge la
produzione capitalistica al di là dei suoi limiti” anche nel senso di porre a disposizione
della produzione “tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società, nella
misura in cui esso non è stato già attivamente investito”: ossia non soltanto il capitale
del capitalista, ma anche quello – altrimenti inutilizzato – di terzi.53
È precisamente per questi motivi, osserva Marx, che il credito appare come la
causa della sovrapproduzione: “se il credito appare come la leva principale della
sovrapproduzione e degli eccessi e della sovraspeculazione nel commercio, ciò accade
soltanto perché il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui
forzato sino al suo estremo limite, e vi viene forzato proprio perché una gran parte del
capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, che quindi
rischiano in misura ben diversa dal proprietario il quale, sinché agisce in prima
persona, considera con preoccupazione i limiti del proprio capitale privato” (p. 97). A
questo riguardo è interessante notare come un aspetto contro cui puntano il dito alcuni
critici odierni della finanza, ossia il fatto che essa utilizza il denaro di altri, per Marx
non è una patologia ma una caratteristica di fondo del sistema creditizio.54
Però, proprio per il fatto di accelerare “lo sviluppo delle forze produttive e la
creazione del mercato mondiale”, il sistema creditizio al tempo stesso “accelera le
crisi, le violente eruzioni di questa contraddizione e quindi gli elementi della
dissoluzione del vecchio modo di produzione” (ibidem). Grazie al credito si può ben
spingere la produzione oltre i limiti del consumo (ossia dell’effettiva domanda
pagante), ma alla fine il processo si inceppa e la crisi si incarica di dimostrarci che
quel limite è invalicabile. Le merci restano invendute, cominciano i ritardi nei
pagamenti, la circolazione si arresta in più punti, e tutto il meccanismo entra in stallo.
Ecco come Marx descrive la situazione: “Fino a che il processo di riproduzione
fluisce normalmente (…) questo credito si mantiene e si amplia, e questo
ampliamento è fondato sull'ampliamento del processo stesso della riproduzione. Non
appena subentra un ristagno provocato da ritardo dei rientri, da saturazione dei
mercati, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale persiste
sempre, ma in una forma che non gli permette di adempiere alla sua funzione. Massa
di capitale-merce, ma invendibile. Massa di capitale fisso, ma in gran parte inattivo a
causa del ristagno della riproduzione” (p. 98).
A questo punto il credito si contrae: la restrizione del credito e la richiesta di
pagamenti in contanti contribuiscono a conferire alla crisi la sua apparenza di crisi
creditizia e monetaria. “Il fatto che, laddove l’intero processo poggia sul credito, non
appena il credito venga improvvisamente a mancare e ogni pagamento possa essere
effettuato solo in contanti debba subentrare una crisi creditizia e la mancanza di mezzi
di pagamento – è ovvio, come lo è il fatto che la crisi nel suo complesso debba quindi
presentarsi prima facie come crisi creditizia e monetaria”. La realtà è un’altra:
emergono “transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del
sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui”; ed
emerge soprattutto il fatto che le merci restano invendute e perdono il loro valore
(Marx parla a questo proposito di “capitali merci che si sono svalorizzati”), che i
profitti attesi “non possono più essere realizzati” (pp. 75-76).
Dietro la crisi “creditizia e monetaria” (oggi si direbbe finanziaria) –, oltre al
fallimento di speculazioni nate nel momento di massima espansione del credito, c’è
insomma una crisi di sovrapproduzione e di realizzazione del capitale. Questo è vero
in generale, ed è vero anche per quanto riguarda la crisi scoppiata nel 2007. Lo
dimostra una ricerca pubblicata dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico nel maggio del 2009, che evidenzia come la produttività del
lavoro fosse in rallentamento già molto prima dello scoppio della crisi finanziaria.55
Nel settore delle costruzioni Usa il calo inizia tra i due e i quattro anni prima della
crisi; sino a quando, nel 2007, la produttività del lavoro in tale settore segna un –12%.
Alla base c’è quindi, afferma la stessa ricerca OCSE, “un problema di eccesso di
offerta”. Per un certo periodo è sembrato che “una forte spinta alla domanda
attraverso un’estensione delle facilitazioni creditizie avrebbe potuto compensare i
problemi dal lato dell’offerta. Ma alla fine si è dovuto pagare pegno all’economia
reale”. Anche in Europa e in Giappone tra il 2006 e il 2007 vi è un stato chiaro
rallentamento della produttività. La conclusione della ricerca, sia pur espressa in
termini diplomatici, è piuttosto chiara: “rispetto all’assunto che il deterioramento
dell’economia reale sia stato semplicemente causato dalla crisi finanziaria, i dati
danno sostegno ad una relazione più complessa”.56 Che “la caduta degli investimenti
delle imprese sia almeno in larga misura dovuta a un eccesso di capacità produttiva”
è oggi sostenuto anche da Paul Krugman.57 Più in generale, Patrick Artus, evidenziati
i tassi d’investimento molto elevati riscontrabile nei paesi emergenti e la contestuale
presenza di tassi di investimento costanti nei paesi OCSE, conclude che “il mondo si è
trovato in una situazione di eccesso di offerta di beni e servizi a partire dalla fine degli
anni Novanta”.58
Insomma: la crisi, una classica crisi da sovrapproduzione, è precedente lo
scoppio della bolla creditizia. La bolla creditizia l’ha prima mascherata e poi,
esplodendo, ha creato l’illusione di esserne la causa.
A questo punto, proprio per il fatto che l’eccesso del credito nel settore
immobiliare statunitense era solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più
generale, si è prodotta una drammatica accelerazione della crisi, a cui hanno
contribuito le massicce svalutazioni di titoli finanziari dovute a vendite a qualsiasi
prezzo pur di onorare i propri debiti (infatti molti investimenti in titoli erano stati
effettuati per mezzo di debito, che si contava di ripagare – come era avvenuto in
precedenza – grazie alla crescita di prezzo di quegli stessi titoli). Si è innescato quel
meccanismo di avvitamento - che può condurre ad una vera e propria spirale
deflattiva - descritto con precisione nel secolo scorso da Hyman Minsky e prima di
lui, in relazione alla crisi del 1929, da Irving Fisher.59
Nella crisi, puntualmente, si è interrotto il ciclo di trasformazione della merce in
denaro e si è prodotta quella caratteristica “carestia di denaro” che trasforma il denaro
stesso, da semplice mezzo di circolazione del capitale, in “merce assoluta”, in “forma
autonoma del valore” superiore e contrapposta alle singole merci: “in periodi di
depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro
improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di
pagamento e autentica forma di esistenza del valore” (p. 103). Anche in questa crisi,
in parallelo all’assottigliarsi dei flussi finanziari e al diminuire del processo di
conversione delle merci in denaro, è aumentata la richiesta di mezzi di pagamento,
quali le banconote, e si sono verificati rilevanti fenomeni di tesaurizzazione.60 Di più:
dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel settembre 2008, la circolazione del
capitale è sembrata interrompersi e gli stessi prestiti interbancari si sono per qualche
tempo letteralmente paralizzati su scala mondiale.

9. Crisi e distruzione di capitale
La crisi iniziata nel 2007 ha assunto col passare dei mesi le caratteristiche di una
vera e propria crisi generale. Attraverso di essa si è verificata una enorme distruzione
di capitale su scala mondiale.
La distruzione di capitale che si verifica nelle crisi non è per Marx un accidente,
ma una condizione necessaria al fine di ripristinare condizioni più elevate di
redditività del capitale investito. Questa distruzione è di due tipi.
Da una parte abbiamo la distruzione di “capitale reale”, che Marx descrive
così: “in quanto il processo di riproduzione si arresta, il processo lavorativo viene
limitato o talvolta interamente arrestato, viene distrutto capitale reale. Il macchinario
che non viene usato, non è capitale. Il lavoro che non viene sfruttato equivale a
produzione perduta. Materia prima che giace inutilizzata non è capitale. Costruzioni
che restano inutilizzate (altrettanto quanto nuovo macchinario costruito) o restano
incompiute, merci che marciscono nel magazzino, tutto ciò è distruzione di capitale”.
In tutti questi casi “le condizioni di produzione esistenti… non vengono messe in
funzione”, e quindi si perde tanto il loro valore d'uso quanto il loro valore di scambio
(p. 104). Questo aspetto della crisi “si risolve in una diminuzione reale della
produzione, del lavoro vivo – allo scopo di ristabilire la giusta proporzione tra lavoro
necessario e pluslavoro, su cui in ultima istanza tutto si fonda”.61 Tale proporzione
può essere ristabilita in quanto la crisi comporta licenziamenti di massa e la creazione
di un esercito industriale di riserva: da questo discende una diminuzione del potere
contrattuale dei lavoratori, e pertanto un aumento della quota del lavoro non pagato e
del saggio del plusvalore.
Un secondo aspetto della distruzione di capitale è rappresentato dalla “caduta
rovinosa dei prezzi delle merci”. In questo caso “non viene distrutto nessun valore
d'uso. Ciò che perde l'uno, guadagna l'altro. Alle masse di valore operanti come
capitali viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi
capitalisti fanno bancarotta”, in quanto non solo non riescono a valorizzare il capitale
anticipato per produrre quelle merci, ma le devono vendere al di sotto del loro valore.
Allo stesso modo, nelle crisi “una gran parte del capitale nominale della società, cioè
del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per tutte, benché
proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valore d'uso, possa favorire molto
la nuova riproduzione” (ibidem). Marx insiste in particolare sul fatto che “la caduta di
capitale semplicemente fittizio, titoli di Stato, azioni ecc.”, in se stesso comporta “un
semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un'altra”, ma non una
distruzione reale di capitale, a meno che esso non porti “alla bancarotta dello Stato e
della società per azioni”, rallentando in tal modo la riproduzione (p. 105).
Entrambi i tipi di distruzione di capitale considerati da Marx sono oggi ben
visibili. Nei soli Stati Uniti il valore dei patrimoni (finanziari e immobiliari) detenuti
dalle famiglie è diminuito di 11.300 miliardi di dollari (il 14,7%) tra la fine del 2007 e
la fine del 2008. Quanto alla distruzione di capitale reale, essa si sta manifestando in
un calo del Pil a livello mondiale che nel 2009 è stato del 2,9% (il primo dalla fine
della seconda guerra mondiale), in un crollo del commercio internazionale del 12,5%,
in un tasso di utilizzo degli impianti inferiore al 70% in molti paesi, in un’enorme
crescita delle bancarotte (+35% su scala mondiale) e in una crescita della
disoccupazione nel mondo di 60 milioni di unità.62
La vera domanda da porsi a questo riguardo è: questa distruzione di capitale
sarà sufficiente a ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito
e quindi a far ripartire l’accumulazione del capitale? Non è facile rispondere. Ma è
lecito ritenere che oggi si rischi uno scenario depressivo assai peggiore delle
recessioni dei primi anni Settanta, quando la distruzione di capitale necessaria per far
ripartire i profitti fu evitata anche in quanto politicamente insostenibile (per la
presenza di una concorrenza tra sistemi, che vedeva un blocco socialista ancora
agguerrito), con la conseguenza di decenni di crescita stentata.63

10. La socializzazione delle perdite: dal debito privato al debito pubblico
Alla luce di questo, ci sono pochi dubbi sul fatto che l’ironia indirizzata da
Marx verso chi asseriva che “il peggio della crisi è passato” (p. 64) sarebbe ben spesa
anche in relazione a molte odierne dichiarazioni di politici, economisti e uomini
d’affari. Certo è che dichiarazioni del genere si sono sprecate – e si sono
manifestamente rivelate false – quasi ad ogni passaggio cruciale della crisi in corso:
dopo il salvataggio di Northern Rock (ancora nel 2007), dopo il salvataggio di Bear
Stearns (marzo 2008), dopo il primo piano Paulson (nell’autunno 2008), in
corrispondenza con la ripresa dei mercati azionari iniziata nel marzo 2009, e così via.
Non a caso, accanto a queste rassicurazioni (o scongiuri?) che mirano a riportare
la “fiducia” sui mercati – come se per far ripartire l’economia bastasse questo – è
gradualmente emersa, in modo sempre più concreto e impellente, la necessità di un
intervento pubblico per mettere a posto le cose, ripristinare livelli patrimoniali minimi
nelle banche, evitare fallimenti troppo clamorosi. Questi interventi di salvataggio
delle banche con denaro pubblico sono stati definiti “socialismo per i ricchi”.64 Marx
non ne aveva parlato in modo molto diverso. Ecco quanto scriveva a proposito della
crisi di Amburgo del 1857: “Per tenere su i prezzi… lo Stato deve pagare i prezzi in
vigore prima dello scoppio del panico commerciale e scontare delle cambiali che non
sono più altro che il controvalore delle bancarotte altrui. In altre parole, il patrimonio
dell’intera società, che il governo rappresenta, dovrebbe ripianare le perdite subite dai
capitalisti privati. Questo genere di comunismo, in cui la reciprocità è assolutamente
unilaterale, esercita una certa attrattiva sui capitalisti europei” (p. 72).
Che dire? Sono passati oltre 150 anni, ma il fascino che misure di questo genere
esercitano sui capitalisti è vivo come allora. E che giudizio dare degli alfieri della
deregolamentazione nell’ambito dei diritti sindacali e del lavoro, i quali –
«Economist» in testa – ora invocano l’aiuto pubblico alle grandi banche e imprese in
crisi per “salvare il sistema”?65 Anche qui, niente di particolarmente nuovo, almeno
stando a questa lettera scritta da Marx ad Engels l’8 dicembre 1857: “È proprio bello
che i capitalisti, che gridano tanto contro il «diritto al lavoro», ora pretendano
dappertutto «pubblico appoggio» dai governi, e ad Amburgo, a Berlino, a Stoccolma,
e Copenaghen e nella stessa Inghilterra (nella forma di sospensione della legge)
facciano insomma valere il «diritto al profitto» a spese della comunità” (p. 76).
Insomma: la tendenza ad invocare la socializzazione delle perdite e uno statalismo a
geometria variabile – rifiutato con sdegno quando pretende di porre vincoli legislativi
al mercato del lavoro, fortemente voluto quando impegna il denaro pubblico per
salvare imprese private – sembra vecchia come il capitalismo e destinata a morire con
esso.
Comunque sia, sta di fatto che la gigantesca trasformazione di debito privato in
debito pubblico, se non è riuscita né a ridurre l’entità complessiva del debito né a
rianimare l’economia, può porre le premesse di un ulteriore crisi del debito: quella,
appunto, del debito pubblico, o – come si dice in gergo – sovrano; con uno Stato
costretto a impegnare risorse che non ha e oltretutto privato dalla stessa crisi delle
entrate fiscali necessarie anche solo a sostenere la normale amministrazione. A questo
punto il risultato che si avrebbe – un risultato solo apparentemente paradossale –
sarebbe una pesantissima crisi fiscale dello Stato, un’ulteriore drastica riduzione del
suo ruolo nell’economia e il campo libero lasciato alle grandi multinazionali private.
Non si tratta di fantascienza, se solo pensiamo che il debito pubblico delle economie
più avanzate del G20 è destinato a crescere del 20% nel 2009 (e le entrate fiscali a
ridursi del 5,5%). E va aggiunto che le proiezioni di questi dati al 2014 parlano di un
rapporto tra debito e Pil cresciuto del 36% rispetto alla situazione del 2007, con un
debito medio al 114% del Pil. Rapporto che potrebbe salire al 150% del Pil nel caso –
tutt’altro che da escludere – di un rallentamento economico molto prolungato.66
Non è un caso se oggi si va diffondendo la convinzione che proprio il debito
pubblico possa rappresentare l’innesco di una nuova crisi sistemica.

11. Conclusione: il ritorno del rimosso
Una cosa è certa: allo stato attuale, qualunque riduzione del ricorso al debito è
destinata a risultare particolarmente dolorosa. Infatti verrebbe così meno il pilastro
che ha sostenuto i profitti negli ultimi decenni (e che ne ha reso socialmente più
tollerabile il loro declinare). E quindi in tal caso – come è stato scritto – “la prognosi è
di un’economia che, anche dopo lo stabilizzarsi della immediata crisi da svalutazione
degli assets, sarà nel migliore dei casi caratterizzata per molto tempo da una crescita
minima, nonché da alta disoccupazione, sottoccupazione ed eccesso di capacità
produttiva”.67 In ogni caso, una imponente distruzione di capitale (con il carico di
sofferenze umane che essa inevitabilmente reca con sé) appare inevitabile e necessaria
per far riprendere il business e per far ripartire la macchina dei profitti. Insomma – per
dirla con Marx – per far “ricominciare tutto il giro” (p. 161).
Più in generale, la gravità della crisi attuale appare strettamente legata ad alcune
particolarità della situazione. Vediamole:
1) la riduzione dei tassi a dei minimi secolari (0-0,25% negli Stati Uniti, 0,25%
in Giappone, 0,5% nel Regno Unito, 1% nella zona Euro) non consente
ulteriori margini di manovra alle politiche monetarie;68
2) siamo alla fine di un ciclo quarantennale di crescita del debito;
3) il problema del debito è ormai generalizzato tra gli Stati più industrializzati;
4) siamo – probabilmente – alla fine della centralità del dollaro quale valuta
internazionale di riserva;
5) emergono anche limiti in qualche modo oggettivi all’ampliamento del
mercato (ad es. per quanto riguarda la distruzione dell’ambiente).
Tutto questo ripropone interrogativi di fondo circa la sensatezza e sostenibilità
sociale di un sistema che trasforma la crescita della produttività in una maledizione e
che ha bisogno di crisi ricorrenti e di distruzione di capitale su larga scala per andare
avanti. È questo un ultimo, cruciale tema sollevato da Marx nella sua analisi delle
crisi. Per Marx “nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la
crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di
produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a
circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la
forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far
posto a un livello superiore di produzione sociale” (p. 105).
Ora, non vi è dubbio che la possibilità del passaggio ad un modo superiore e
meno primitivo di produzione sociale è proprio ciò che nei nostri anni è stato
violentemente rimosso, appiattendo il futuro sulla semplice continuazione del
presente. La possibilità di un “livello superiore di produzione sociale” è stata
accantonata come un’utopia totalitaria, elevando facendo dell’attuale non soltanto il
migliore, ma l’unico dei mondi possibili. È da anni, ormai, che questa limitazione del
nostro orizzonte storico-sociale è accettata a livello di massa.
È però mia convinzione che si debba oggi recuperare anche quell’aspetto,
senz’altro il più ostico e il meno addomesticabile, del messaggio di Marx. Chiunque
faccia proprio questo punto di vista, non potrà ritenere risolutivo della crisi il
miglioramento dell’efficienza dei mercati e neppure il rilancio della domanda
aggregata. E sarà invece portato a ritenere, con Marx, che la sola vera soluzione della
crisi può venire dall’intendere che il capitalismo è il problema, e dall’operare di
conseguenza: ossia per il superamento di questa “ultima configurazione servile
assunta dall’attività umana” (p. 105), con l’obiettivo di far sì che i produttori
assoggettino la produzione – che oggi li sovrasta come una “legge cieca” – al “loro
controllo comune come intelletto associato” (p. 163).
Questo oggi può significare concretamente solo una cosa: riprendere e rilanciare
i grandi obiettivi dell’autogoverno dei produttori e della pianificazione dell’economia.


NOTE

1 La paternità della definizione è di Ignacio Ramonet: vedi La pensée unique, «Le Monde
Diplomatique», gennaio 1995.
2 In merito vedi: G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale contesto internazionale,
Università degli Studi di Milano, Dipartimento Economia Politica e Aziendale, Working Paper n. 23,
dicembre 2001; V. Giacché, “Parlar male di Garibaldi”, in R. Martufi, L. Vasapollo, Vizi
privati…senza pubbliche virtù, Cestes-Proteo, Roma 2003, pp. 1-5.
3 P. Kennedy, Read the big four to know capital’s fate, «Financial Times», 13 marzo 2009; L Panitch,
Thoroughly Modern Marx e J.B. Judis, Confessions of a True Believer, in «Foreign Policy», May/June
2009 (in copertina: Marx, Really? Why He Matters Now); Marx, «Le Point hors série», giugno-luglio
2009; Marx factor, «il venerdì di Repubblica», 22 maggio 2009.
4 Intervista a P. Steinbrück di Th. Toma, W. Reuter, In einen Abgrund geblickt, «der Spiegel», 29
settembre 2008.
5 Vedi ad es. il «Flash Economics», 6 gennaio 2010, n. 2, pubblicato da Natixis: P. Artus, A Marxist
interpretation of the crisis. La conclusione del report è piuttosto sorprendente: “l’interpretazione
marxista della crisi è evidentemente corretta”.
6 K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. “Das Kapital” und Vorarbeiten,
Band 4: K. Marx, Ökonomische Manuskripte 1863-1867. Text - Teil 2. Hrsg. von der Internationalen
Marx-Engels-Stiftung, Amsterdam. Bearbeitet von M. Müller (Leiter), J. Jungnickel, B. Lietz, Chr.
Sander u. A. Schnickmann, Dietz Verlag, Berlin 1992, p. 540 (d’ora in avanti citato come MEGA II/4.2
seguito dal numero di pagina).
7 I numeri di pagina riportati direttamente in testo si riferiscono alle pagine del volume K. Marx, Il
capitalismo e la crisi. Scritti scelti a cura di V. Giacché, DeriveApprodi, Roma 2009, rist. 2010.
8 K. Marx, La Costituzione britannica, in «Neue Oder-Zeitung», n. 109, 6 marzo 1855, MEW 11.96 =
MEOC 14.53-54 (cfr. anche MEOC 14.59-60).
9 All’epoca in cui Marx scriveva queste righe effettivamente le crisi avvenivano ad “intervalli regolari”
di dieci anni l’una dall’altra: cfr. Ch. P. Kindleberger, Storia delle crisi finanziarie, 2a. ed. 1989, tr.it.
di F. Grossi, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 17.
10 C.M. Loser, Global financial turmoil and Emerging Market Economies: Major Contagion and a
shocking loss of wealth?, ADB, marzo 2009, p. 7.
11 C.A. Ciampi, “La sfida che l’Europa non può perdere”, Il Messaggero, 1° aprile 2009.
12 Il capitale, libro I, sez. I, cap. 3: MEW 23.120; tr.it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1968,
19809, p. 138 (d’ora in avanti i tre volumi di questa edizione saranno citati con ER seguito dal numero
di volume e di pagina).
13 Un’eccellente interpretazione di questi passi in un’ottica non sottoconsumistica si trova in G.
Carchedi, The return from the grave, or Marx and the present crisis, Amsterdam, marzo 2009: vedi
http://gesd.free.fr/carchedi9.pdf .
14 S. Perri, “Ritorno al futuro? La caduta tendenziale del saggio di profitto, tra teoria e evidenza
empirica”, relazione al convegno The Global Crisis, Siena, 26-27 gennaio 2010, versione provvisoria,
p. 6: www.theglobalcrisis.info/docs/ppt/pdf/StefanoPerri.pdf .
15 A. Kliman, “The Destruction of Capital” and the Current Economic Crisis, 15 gennaio 2009
(reperibile su http://akliman.squarespace.com/crisis-intervention/ ).
16 In proposito vedi i dati riportati in J. Halevy, “Stagnazione e crisi: Usa, Asia nippo-americana e
Cina”, in L. Vasapollo (a cura di), Lavoro contro capitale. Precarietà, sfruttamento, delocalizzazione,
Jaca Book, Milano 2005, pp. 181 sgg.
17 A. Freeman, In our lifetime: long-run growth and polarisation since financial liberalisation,
intervento per il convegno For Historical Materialism, dicembre 2006.
18 M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves, institutional changes, and historical trends: a study of the longterm
movement of the profit rate in the capitalist world economy, «Journal of World-Systems
Research», vol. XIII, n. 1, 2007, pp. 33-54, partic. pp. 38-40.
19 M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves…, cit..
20 A. Kliman, “The Destruction of Capital”…, cit., e A. Kliman, The Persistent Fall in Profitability
Underlying the Current Crisis: New Temporalist Evidence, second draft, 17 ottobre 2009, p. 23.
L’articolo è scaricabile da: http://akliman.squarespace.com/persistent-fall/ .
21 J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation. Back to the Real Economy,
«Monthly Review», dicembre 2008, edizione online (http://monthlyreview.org/081201fostermagdoff.
php )
22 S. Perri, “Ritorno al futuro?…”, cit., p. 38 (e vedi già p. 1). A. Kliman, The Persistent Fall in
Profitability…, cit., p. 28.
23 L. Davi, Utili record per Exxon e Chevron, «Il Sole 24 Ore», 31 gennaio 2009.
24 La relativa prevalenza dell’uno o dell’altro fattore può consentire una periodizzazione interna degli
ultimi 30 anni, superando anche per questa via l’accusa di genericità rivolta da R. Bellofiore e J. Halevi
agli approcci che nell’interpretazione degli ultimi decenni pongono al centro la teoria della caduta del
saggio di profitto: vedi Vedi R. Bellofiore, J. Halevi, “La Grande Recessione e la Terza Crisi della
Teoria Economica”, relazione al convegno The Global Crisis, Siena, 26-27 gennaio 2010, p. 12: vedi
www.theglobalcrisis.info/docs/relazioni/BellofioreHalevi.pdf.
25 Il Capitale, libro I, sez. II, cap. 4, § 3: MEW 23.185 = ER 1.203.
26 Ivi, MEW 23.185 = ER 1.204
27 T. Piketty, E. Saez, Income inequality in the United States 1913-1998, in «The Quarterly Journal of
Economics», n. 1/2003, passim; E. Saez, Striking it richer: the Evolution of Top Incomes in the United
States (Update using 2006 Preliminary Estimates), 15 marzo 2008; T. Piketty, E. Saez, How
Progressive is the US Federal Tax System? An Historical and International Perspective, CEPR
Discussion Paper n. 5778, CEPR, London, 2006; J. Plender, Mind the gap. Why business may face a
crisis of legitimacy, «Financial Times», 8 aprile 2008. Vedi anche i dati OCSE citati in R. Artoni, C.
Devillanova, Dal 1929 al 2008, Università Bocconi, Centre for Research on the Public Sector, Short
note n. 5, novembre 2008, p. 4.
28 Sulla situazione britannica vedi M. Kelly, “Povera middle class”, il manifesto, 15 giugno 2008, e M.
Engel, A Faustian pact that backfired spectacularly, «Financial Times», 26 maggio 2009.
29 L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International Settlements,
luglio 2007. La ricerca è stata ripresa in un articolo di M. Ricci, “Il declino degli stipendi”, la
Repubblica, 3 maggio 2008. Vedi anche M. Mucchetti, “Torna il tema della redistribuzione”, Corriere
della Sera, 24 agosto 2008.
30 Global Wage Report 2008/9, International Labour Organization, Ginevra, novembre 2008. Si vedano
in particolare le pp. XIII, 20, 59. Ma tutta la ricerca è di estremo interesse.
31 Come si è visto sopra, in molti casi è stata sufficiente la minaccia di spostare le produzioni in questi
paesi.
32 D. Farrell, New Thinking for a New Financial Order, «Harvard Business Review», settembre 2008.
33 J. Bellamy Foster, H. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 7.
34 H. Magdoff e P.M. Sweezy, La fine della prosperità in America [1977], tr. it. Editori Riuniti, Roma
1979, p. 190.
35 Vedi ad es. Y. Smith, The Origins of the Next Crisis, 13 aprile 2010:
http://www.nakedcapitalism.com/2010/04/the-origins-of-the-next-crisis.html .
36 H. P. Minsky, Finance and Stability: The Limits of Capitalism, relazione al convegno «The Structure
of Capitalism and the Firm in Contemporary Society», Milano 1993, p. 6. Vedi anche F. Alle
ıFinancial Crises, Princeton University 2003
 p. 4 (http://PU-CRISES-SEC1.pdf )ı.
37 A. Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, cit., p. 150.
38 L. Goldner, “The ‘Dollar’ Crisis, and Us”: http://home.earthlink.net/~lrgoldner .
39 H. P. Minsky, Finance and Stability, cit., p. 17.
40 Si veda ad es. P. Warburton, Debt and Delusion: The Threat to Global Financial Stability from the
Over-accumulation of Debt, dicembre 2000
(http://www.countdownnet.info/archivio/analisi/world_economy/debt1.zip ).
41 Cit. in R. Nutting, ‘Lost decade’ possible for global economy, ECB’s Stark says, in
www.marketwatch.com , 8 marzo 2010.
42 È possibile che nel settembre 2001 si fosse alla vigilia di una crisi di dimensioni prossime all’attuale.
Proprio il giorno prima dell'attentato la Banca dei Regolamenti Internazionali aveva pubblicato il
rapporto relativo al secondo trimestre del 2001. Da esso emergeva un “colpo di freno dell'economia
mondiale”, segnalato dal chiaro "rallentamento della domanda di prestiti per nuovi investimenti”. Negli
Usa, però, la situazione era particolarmente seria. I dati relativi alla produzione americana nel mese di
agosto avevano battuto due record negativi: l’andamento peggiore della produzione industriale
americana dal 1960 (undicesimo calo consecutivo), e il tasso di utilizzo degli impianti, tornato ai
minimi del 1983 (tra le industrie manifatturiere la capacità produttiva inutilizzata era ormai superiore al
25% del totale). Ancora: i profitti delle 500 imprese dell'indice Standard & Poor's nel secondo trimestre
2001 avevano segnato un calo medio del 60%, e si trovavano secondo l’Economist “al livello più basso
da mezzo secolo a questa parte”. Tutte le principali economie mondiali evidenziavano un eccesso di
capacità produttiva, “al suo livello massimo dagli anni Trenta” ("How far down?", the Economist,
20/10/2001). Hanno quindi ragione R. Bellofiore e J. Halevi a parlare di una “prima e significativa crisi
generale” a proposito degli anni 2000-2001: R. Bellofiore, J. Halevi, “La Grande Recessione e la Terza
Crisi della Teoria Economica”, cit., p. 7.
43 A. Kliman, “The Destruction of Capital” and the Current Economic Crisis, cit., p. 6.
44 Tra i pochi ad inquadrare direttamente il problema è N. Roubini, Are we at the peak of a Minsky
credit cycle?, 30 luglio 2007, in www.rgemonitor.com .
45 Per un’istruttiva e divertente rassegna delle sciocchezze che sono state dette sulla crisi da molti degli
economisti più in auge vedi M. Cobianchi, Bluff. Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e
continuano a non capirci niente, Orme, Milano 2009; il testo contiene anche una buona cronologia
degli avvenimenti dal 2007 alla fine del 2008.
46 J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, «Financial Times», 8 aprile
2008.
47 J. Sapir, From Financial Crisis to Turning Point. How the US «Subprime Crisis» Turned into a
Worldwide One and Will Change the Global Economy, «Internationale Politik und Gesellschaft»,
1/2009, p. 30.
48 Intervento di S. Marchionne, Incontro con le Istituzioni e le Organizzazioni Sindacali, Roma, 18
giugno 2009, p. 3 (corsivi miei).
49 Non a caso le società di credito al consumo delle principali case automobilistiche mondiali sono state
le prime ad essere severamente colpite dalla crisi in corso; S. Marchionne, Intervento, cit., p. 2.
50 Vedi R. Bellofiore, J. Halevi, “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”, cit.,
p. 4 (con riferimento ai lavori di Toporowski), ed in particolare p. 13.
51 K. Marx, Il Capitale. Libro II, cap. 1, § IV, MEW 24.62; tr. it. di R. Panzieri, ER 2.58-59. H.
Grossmann, Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich
eine Krisentheorie), Leipzig, Hirschfeld, 1929; ristampa Frankfurt a.M., Verlag Neue Kritik, 1970, p.
546.
52 Vedi Chart 1 in J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 7;
Murray E.G. Smith, Causes and consequences of the Global Economic Crisis: A Marxist-Socialist
Analysis, novembre 2008 (http://www.countdownnet.info/archivio/analisi/world_economy/579.pdf ).
53 K. Marx, Il Capitale. Libro terzo, sez. 5, cap. 36, MEW 25. 620-621 = tr. it. di M. L. Boggeri in ER
3.2.705.
54 Vedi ad es. L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009.
55 Siccome la produttività è calcolata in termini di quantità di merci prodotte per lavoratore, un suo calo
(soprattutto se marcato e improvviso) indica una diminuzione della produzione a seguito di
sovrapproduzione, o – come oggi si preferisce dire – di excess supply, eccesso di offerta: in tal caso
infatti le merci invendute inducono a diminuire la produzione e a non utilizzare appieno la capacità
produttiva.
56 The real economy and the crisis: revisiting productivity fundamentals, 30 aprile 2009, corsivi miei;
la ricerca è tuttora scaricabile dal sito internet dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico: www.oecd.org/document/30/0,3343,en_2649_34251_42579358_1_1_1_1,00.html . La
ricerca è stata successivamente ripubblicata in forma diversa dai suoi autori: D. Brackfield, J. Oliveira
Martins, Productivity and the crisis: Revisiting the fundamentals, 11 luglio 2009:
http://www.voxeu.org/index.php?q=node/3760 . La necessità di “facilitazioni creditizie” per coprire
l’offerta di case spiega il ricorso crescente ai mutui subprime, passato dal 10% dei nuovi mutui nel
periodo 1998-2003 al 40% nel 2006: i dati sono riportati in L. Spaventa, The crisis: a survey, cit., p. 33
57 Paul Krugman’s fear for lost decade, cit..
58 P. Artus, A Marxist interpretation of the crisis, cit., p. 2.
59 Di H. Minsky vedi ad es. Finance and Stability: The Limits of Capitalism, cit., p. 16. Su Minsky e
Fisher vedi R. Bellofiore, Introduzione a H. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati
Boringhieri, Torino 2009, pp. XXIV sgg. Di “vendite per pagare” aveva parlato lo stesso Marx (p. 101).
60 Al riguardo è interessante notare che la richiesta di banconote da 100 e 500 euro è risultata
particolarmente elevata nell’ultimo trimestre del 2008. In particolare, rispetto all’anno precedente è
cresciuta del 17% la quantità di banconote da 500 euro, che – secondo quanto dichiarato da un report
della Banca Centrale Europea – “sono adoperate in larga misura a fini di tesaurizzazione”: vedi R.
Atkins, Lehman collapse led to euro note ‘hoarding’, «Financial Times», 22 aprile 2009.
61 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-8, MEW 42.360; tr. it.
di G. Backhaus in MEOC 29.383.
62 Vedi Global Development Finance. Charting a Global Recovery, The World Bank, Washington
2009, pp. 12, XI, 1, 9 (table 1.1.), 12. Sulle bancarotte attese cfr. B. Hall, Bankruptcies expected to soar
by 35%, «Financial Times», 4 giugno 2009. Sull’aumento della disoccupazione vedi Unemployment,
working poor and vulnerable employment to increase dramatically due to global economic crisis,
International Labour Organization, press release, 28 gennaio 2009 (ma i dati a fine anno sono risultati
peggiori di 10 milioni di unità).
63 Mi sembra che convergente con questa valutazione sia quanto affermato da R. Bellofiore e J.Halevi:
“effettivamente vi fu una tendenza alla Grande Crisi da domanda nei primissimi anni Ottanta, ma
…essa fu battuta da controtendenze politiche”: vedi “La Grande Recessione…”, cit., p. 2.
64 Così J. Rogers (ex socio di Soros nel Quantum Fund) in un’intervista a CNBC Europe l’8 settembre
2008. Per il video vedi http://www.cnbc.com/id/26603489/ .
65 Il titolo di copertina dell’«Economist» del 9 ottobre 2008 recitava appunto: Saving the system.
66 Vedi Fiscal implications of the global economic and financial crisis, IMF Staff Position Note, 9
giugno 2009, pp. 3, 22 (table 5.1.), 25 e 26 (table 5.2.), 29 (figure 5.6.), 39 sgg.. In Germania il tema
della possibile bancarotta dello Stato campeggia già sulle copertine dei settimanali: vedi ad es. Der
geplünderte Staat. Wie viel Opel darf sich Deutschland noch leisten?, «Der Spiegel», 8 giugno 2009.
67 J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 15.
68 In un caso si tratta di minimi plurisecolari: i tassi d’interesse nel Regno Unito sono i più bassi dal
1694, anno di fondazione della Bank of England.

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